Abbiamo rivolto alcune domande a proposito del Premio Carlo Pucci al Dottor Luigi Ficacci, Presidente del Festival Pucciniano fino ad agosto 2024, storico dell’arte e già Soprintendente alle Belle Arti di Lucca. Ecco le sue illuminanti risposte, buona lettura.

Il Premio Carlo Pucci, arrivato alla celebrazione del suo decimo anniversario, da sempre lavora con il supporto delle amministrazioni locali, nell’ottica condivisa di promuovere la valorizzazione del territorio toscano attraverso buone pratiche di architettura e la valutazione di progetti che siano in grado di rispondere con efficacia e innovazione alle sfide contemporanee.

Ci racconta come, nella sua esperienza personale, la sinergia tra pubblico e privato, possa essere foriera di progetti di successo ?
Se penso alla mia esperienza di soprintendente al patrimonio culturale, per incarico dell’attuale Ministero della Cultura, la risposta è, quasi obbligatoriamente, un incoraggiamento a raggiungere la massima sinergia. Quella del Soprintendente è una funzione che strutturalmente deve confrontarsi con l’ambito privato, imprenditoriale quanto progettuale. Sarebbe grave, indizio di una patologia in uno dei due settori, se tra pubblico e privato non si trovasse, ogni volta, una convergenza di interessi. Deve essere la meta costante e reciproca. Quando poi nel privato progettualità e imprenditoria si uniscono, allora la situazione diventa ancora più interessante , per un arbitro pubblico. Ma poi, è la stessa normativa, di ogni genere, ad attribuire ormai a qualsiasi attività privata responsabilità e conseguenti oneri -e perciò metodi- non troppo dissimili da quella pubblica. Credo che l’operatore pubblico debba riconoscere in questa evoluzione del privato una facilitazione verso la concorrenza degli obiettivi. Trovare una convergenza di scopo tra i due settori va a tutto favore del prodotto e dei suoi effetti pubblici. Un esempio, tra i tanti sperimentati. Sono sempre stato favorevole alla concessione di spazi pubblici, anche dalla forte qualificazione culturale, per attività private, come manifestazioni artistiche. Credo averlo dimostrato, nella mia attività a Lucca, per lo spettacolo dal vivo.
Inizialmente ne ho ricevuto accese contestazioni e tentativi inibitori, ma poi ne ho raccolto la soddisfazione di un’adesione generale, una volta metabolizzata la novità. Lo ho fatto con determinazione, innanzi tutto perché, ogni volta, mi sentivo perfettamente in grado di valutare la qualità della proposta e la sua compatibilità. Ci mancherebbe altro che non lo fossi: è il compito critico primario del tutore pubblico; egli possiede gli strumenti per regolare gli effetti. Tralasciamo i risultati a livello di offerta culturale pubblica della città: grazie alla qualità di una manifestazione privata l’attrattiva del luogo che la ospita può divenire incommensurabile. Ma nei casi cui sto pensando era così ben garantito l’assolvimento da parte privata dei provvedimenti di manutenzione di suolo e infrastrutture da sollevare le istituzioni competenti da proprie responsabilità manutentive assai onerose.
E ciò perché il privato, per soddisfare il proprio interesse imprenditoriale, vi provvedeva -a richiesta pubblica- e lo faceva bene. Ottenere questo scopo è la ragione primaria del controllo pubblico. Se no, a cosa serve?

Ritiene che iniziative come il premio Carlo Pucci possano, dando visibilità al lavoro di giovani architetti, influenzare politiche di sviluppo urbano e di riqualificazione del territorio?
Certamente. Nella mia esperienza non ho ancora trovato formula pratica più efficace del premio per risolvere il gravissimo problema italiano della difficoltà di professionisti esordienti a farsi conoscere. Negli anni sessanta e settanta andava di moda contestare i premi, screditandoli, come retaggio di un passato, polveroso ed equivoco. Credo che il premio, con la sua privata discrezionalità, garantisca migliore libertà; e consente di conoscere propositività nuove. Il concorso pubblico di idee, per aperto o teorico che sia, rischia di essere più preclusivo e pregiudiziale, per gli esordienti. Ciò che è indispensabile, è che politiche di sviluppo urbano e di riqualificazione territoriale, quali che siano, si rendano consapevoli della propositività dei premi, dei loro contenuti e risultati, e, con i loro poteri, vogliano darvi seguito efficace.

Se dovesse dare un consiglio ai neo laureati che si affacciano a questa professione, quale sarebbe?
Considerare ogni intervento, ogni elaborazione progettuale, in un contesto idealmente urbanistico, si tratti di ingegneria (per dire tecnologia), che architettura (nell’ampio spettro degli specialismi derivanti, dal restauro, alle tecniche della costruzione, al disegno applicato). Dal più innocente oggetto d’uso, all’intervento più protetto, quale può essere – che so- una scenografia, il giovane progettista deve essere consapevole che il malato grave, in progressivo aggravamento, nell’Italia degli ultimi decenni, è la città. E che più la città è antica o vecchia (la così detta ‘città d’arte’, che non chiamerò mai ‘storica’, perché storica va considerata ogni città), più la patologia è grave. Credo metodologicamente utile che i giovani studino la situazione di Roma e la assumano quale parametro.
L’inarrestabile progressione del suo degrado urbanistico e urbano, la spietata distruzione del suo tessuto sociale, nelle aree centrali, abbandonate alla speculazione turistico commerciale più selvaggia, alla proliferazione di ogni profitto, l’abbandono del suo governo, in una sfrenata contraffazione folclorico retorica: questa condizione di fatto deve essere la misura metodica di un rischio catastrofico, quale la regressione della città italiana, e con essa della cultura e, alla fine, della civiltà, che nella città trova la sua identificazione. Che questo accada proprio nelle aree formalisticamente sottoposte a tutela vincolistica è significativo e inquietante. Ma, ciò nonostante, questo indizio di significato, tutt’altro che allarmare, non viene raccolto né riconosciuto. Contraffazione si ha quando la condizione di modello non funziona più, rispetto alle proprie derivazioni, valide o perverse che siano. E’ indispensabile che ogni giovane architetto riconosca, analizzi e comprenda le cause di questo marasma, tra condizione attuale dei modelli e comportamenti dei derivati, e operi nella coscienza della sua gravità; che sia consapevole dell’obbligo della sua professione a vi opponga resistenza.

Se dovesse esprimere un desiderio rispetto allo sviluppo urbano della nostra regione, quale sarebbe?
Che in questa regione il riuso dell’edificato diventi un riconosciuto metodo programmatico di governo del suolo. Per ottenere un concreto sviluppo in questa direzione è necessaria una precisa scelta culturale e perciò politica, che comporti un oculato orientamento delle destinazioni d’uso, secondo le esigenze e compatibilità territoriali. A una simile definizione direttiva è però necessario segua la promozione della più ampia accezione del riuso, quale educazione al progetto. Il mio auspicio è che i dirigenti, a qualunque ente appartengano, statale quanto locale, diventino consapevoli di quale strumento duttile, nelle sue potenzialità, se sviluppato e intelligentemente applicato, sia la pianificazione regionale di indirizzo territoriale. Da Soprintendente, in una delle poche regioni italiane che ne sia dotata, quale è la Toscana, credo averne sperimentato l’utilità e l’efficacia, più di quanto non mi aspettassi, prima di averne esperienza concreta. Certamente, ci vuole convergenza sugli esiti da raggiungere, ma, nello specifico di ogni professione e funzione, questo passaggio è di ordine culturale e simultaneamente politico.